In questi mesi di imposta clausura ci siamo accorti in modo tangibile di quanto fino a oggi abbiamo goduto appieno della vita libera e autonoma senza limitazioni, che mai avremmo pensato di perdere, anche temporaneamente. I nostri comportamenti interpersonali e sociali sono cambiati drammaticamente ma, sia pure a malincuore, abbiamo dovuto accettare il fatto che solo riducendo la nostra libertà saremmo riusciti ad avere la meglio sulla pandemia.

Cornelia 01Vedere nel prossimo un possibile nemico da temere ci ha costretto a rinunciare alla cordialità, imponendoci (tra l'altro con l'aggiunta di sanzioni e multe severissime) un distanziamento sociale che ha modificato il sentire comune e i comportamenti quotidiani.
Nella società attuale, a fronte dell'allargamento della nostra libertà, è andato via via riducendosi il ricordo di come eravamo nel passato. L'apertura degli orizzonti commerciali e l'avvento della globalizzazione, infatti, ci hanno fatto dimenticare l'esperienza plurisecolare accumulata sui contagi, che hanno segnato la vita e il comportamento dei nostri predecessori, che cercarono di affrontare le pestilenze nei modi più svariati.
Si pensi a quanti Santi siano stati invocati e a quante chiese siano state erette per tutelare l'umanità da queste infezioni e a quanti sofisticati sistemi siano stati inventati per difendere la nostra sopravvivenza.
Anche il medico della Serenissima, ad esempio, usava una maschera, certo meno confortevole di quella usata ai nostri giorni: era fatta a forma di testa di uccello dal grosso becco, che veniva riempito di erbe aromatiche per avere una qualche difesa dal morbo e, nello stesso tempo, permettere l'assistenza e la cura del paziente.
Solitamente si pensa alla peste come limitata al breve periodo, di manzoniana memoria, collocato intorno ai primi decenni del 1600; in realtà questo contagio era presente in modo più o meno violento fin dall'anno mille, quando le cronache hanno cominciato a farne menzione. Forse, però, esso comparve anche in epoche precedenti, se pensiamo alle importanti norme igieniche adottate in epoca romana e poi completamente dimenticate o sconosciute o in qualche occasione applicate per il solo privilegio di pochi eletti.
La forchetta, posata in precedenza usata solo all'interno della corte imperiale bizantina, comparve e cominciò il suo difficile inserimento nel vivere quotidiano veneto alla fine del primo millennio. Fu portata in dote dalla figlia dell'imperatore, che andò in sposa a Giovanni Orseolo, figlio del doge Pietro: era così attenta a rispettare l'etichetta e il bon ton di tanto aristocratica provenienza, che non tralasciava alcuna occasione per sfoggiare la sua abilità nel maneggiare con disin-voltura quell'arnese, il piron greco, che le permetteva di evitare di contaminarsi e di toccare il cibo con le mani; ma la sua attenzione non fu premiata, perché all'arrivo del morbo in città, ironia della sorte, anch'ella si infettò e morì di peste.
In quella società, rivolgersi al Padre Eterno o ai Santi si presentava come la miglior soluzione possibile, ma veniva anche richiesto, forse in modo indiretto, un comportamento "adeguato" e sobrio, al fine di castigare ogni costume di ostentazione e opulenza. Concetto espresso da un vecchio detto veneto: se il corpo viene punito, l'anima otterrà una corrispettiva sublimazione verso il premio celeste.
Non era solo un atteggiamento sociale, ma un vero e proprio codice comune per affrontare le avversità e il morbo nel modo più serio. Non erano consentiti, quindi, atteggiamenti pubblici trop-po disinvolti o spontanei, ma solo ben calcolati e opportuni modi di presentarsi e di apparire.
Fu così che, nella seconda metà del Cinquecento, av-venne un fatto increscioso, noto alle cronache del tem-po, che colpì la famiglia di Francesco Trento, l'inventore dei ventidotti di Costozza, reso famoso dall'apprezzamento espresso nei suoi confronti da Andrea Palladio nel primo libro de I Quattro Libri dell'Architettura. Nel 1573, in pieno inverno, mentre soggiornava a Vicenza, Cornelia, sua seconda moglie, due giorni dopo il santo Natale ebbe "l'ardire di presentarsi in giro con un terzarino d'oro con perle e perle preziose, con un filo di perle corto e uno lungo al collo grosse e di gran valore e un cinturino con un pendente con una testa e smalto. Il tutto in disprezzo della peste". Una bella donna, quindi, doveva essere contrita, apparire modesta e non sfoggiare alcun gioiello.
La situazione peggiorò un mese dopo, perché Cornelia, nonostante la presenza della peste, girava per la città su una carretta tutta intagliata coperta da un tessuto foderato in seta, in modo del tutto simile all'attuale esibizione del possesso di un'auto di lusso, a dimostrare il proprio status. Il mezzo di trasporto, invece, doveva essere adeguato e non sfarzoso, un po' come le gondole veneziane che all'inizio del Seicento dovettero abbandonare i colori sgargianti.
La dama non venne accusata, ma per questi fatti il marito fu posto sotto processo e appena due mesi dopo, l'otto marzo dello stesso anno, fu condannato dai giudici alle Pompe Niccolò Scoffa ed Ettore Ferramosca a pagare una multa di 100 lire. Costoro erano i magistrati che sovrintendevano ai costumi ed è singolare il termine del loro ufficio: "alle Pompe" cioè alle manifestazioni, e quindi a come si esternava il proprio sentimento. Si ricorda, al riguardo, il termine "pompa magna" con cui si definisce l'ostentazione del gran lusso, dell'eleganza e dello sfarzo.
A onor del vero, le cose non andarono troppo bene alla gentildonna. Qualche anno più tardi, infatti, davanti al Podestà fu effettuata una valutazione dei gioielli di Cor-nelia Nievo, vedova di Francesco Trento dottor in legge, per l'accusa avanzata da tale dal Quartiero, che affermava di non essere stato pagato per le gioie, gli ori, gli argenti e vestiti inclusi come da ricevuta presentata.
Non è noto se Cornelia fu costretta a separarsi temporaneamente o definitivamente da quegli oggetti per ripagare il debito procurato e mai onorato da lei, dal marito o dal figlio Cecenio, figura di-sonesta e scapestrata. Fu comunque un ulteriore smacco per la casata e per quel ramo della famiglia che aveva raggiunto l'apice della notorietà con opere prestigiose come l'Eolia e la formazione del cenacolo accademico Eolico. Da allora la parabola familiare iniziò a scendere, tra eventi sempre più cupi che determinarono la violenta caduta di prestigio del ramo dei Trento legato a Francesco, fino alla tragica soppressione, all'inizio del Seicento, di Cecenio, unico erede senza progenie.